domenica 28 aprile 2019

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mercoledì 27 giugno 2018

Servizio fotografico  su Guardia.
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https://www.facebook.com/media/set/?set=a.10211269777002204.1073742367.1292883302&type=3. Servizio su Guardia.

martedì 19 dicembre 2017

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mercoledì 27 settembre 2017

La Lingua Osca 
L’osco appartiene al ceppo linguistico indoeuropeo, propriamente alla stessa famiglia del latino, del greco e del messapico e fu la lingua ufficiale del Sannio   fino alla terza guerra sannitica.
Giunse da noi con la terza invasione della popolazione europea-asiatica, avvenuta attraverso il Canale d’Otranto tra il 1500 e il 1200 a.C. e presenta un volto e una struttura non molto diversi dal latino, essendo i Sanniti veri e propri cugini di quelli che furono poi i fondatori della Città Eterna.   
Tra le sue caratteristiche fondamentali bisogna ricordare le seguenti:

a)      Alla ” i “ (lunga) dell’Indoeuropeo comune, quella che in latino resta “i”, l’osco risponde spessissimo con una “e” lunga con pronuncia molto stretta (i ricercatori di solito la trascrivono con e). Lo testimonia l’analisi fatta da studiosi sulle tavole osche di Agnone e di Pietrabbondante, sui ciottoli di Sepino e le jùvilas di Capua, sul Cippo Abellano e sulle iscrizioni sannite di Pompei.
In detti documenti rileviamo, per esempio,  deke” là dove il latino risponde con “dico”, “vella”  per il latino “villa”, “prems per  il latino “primus”.
 E non è forse una “e” molto stretta la nostra particolare “i” oscura prepalatale, che nell’introduzione abbiamo trascritto con e  nel guardiese  “Fəleppə” e  che confermiamo, come nell’osco, in“deqwə” = dico, “vella” =  villa, “premə = primo e in tanti altri vocaboli  come  “tena” = tino, “pegna” = pigna, “zewə” = zio, “retə = ride e in tutte le sillabe toniche, purchè non sia, essa “i”,  preceduta da vocale,  da “k” o da consonante palatale? 1)

Provate a far pronunciare i vocaboli or ora elencati a un non Guardiese, sia esso Laurentino o San Lupese, Castelvenerese o Solopachese, Beneventano o Napoletano; noterete subito la differenza:  il timbro più oscuro della nostra “i” farà apparire più rude il nostro linguaggio, ma certamente meno mielato e più fiero.

La stessa fierezza ci è assicurata dalla nostra “u”, per la quale, come per la “i”, registriamo due timbri diversi : uno normale, velare, simile a quello della corrispondente “u” italiana ( ed è quella di “mùtə = imbuto) e un’altra più vicina alla “o”, quindi prevelare(nell’introduzione, per distinguerla, l’abbiamo trascritta col segno )  come quella di “sbbətə” =subito, “tttə = tutto, “lttə= lutto e di ogni  “u”  tonica, purchè non sia preceduta da una della seguenti  consonanti: b – k – f – m- p- v- (le cosiddette occlusive od esplosive) oppure da vocale.

ImmagineImmagineUn’attenta  ricerca ha dimostrato che anche questo importante fenomeno fonetico deriva dall’antica lingua dei Sanniti; infatti nel vocalismo osco registriamo due diverse “u”, una normale, corrispondente a quella latina, trascritta con il segno   V  e una prevelare, più vicina alla “o”, trascritta col segno diacritico  V .
Così, sempre nell’osco, la “i” normale è trascritta col segno  I  mentre la “i” prepalatale è riportata col segno diacritico  I
ImmagineSia l’uno che l’altro segno dell’alfabeto osco (V   guardiese, I   = e  guardiese) sono stati scientificamente inseriti dal Lejeune2) nel sistema fonetico delle antiche lingue italiche, ma le osservazioni dello studioso non hanno avuto adeguati sviluppi;
 


1)Le palatali sono quelle che contengono il suono “i” e sono le schiacciate: c, g, sc, gn.
2)Studioso francese, appassionato cultore della lingua dei Sanniti, autore tra l’altro di un interessante articolo  sulla fonetica osca  “Phonologie osque e graphie grecque”- 1970 .
 infatti i glottologi hanno trascurato un poco la nostra area linguistica e non hanno rilevato nelle loro ricerche dette particolari colorazioni vocaliche.  A tal proposito mi ricordo che ebbi un gran da fare nel lontano 1969, quando, discutendo i primi vocaboli, raccolti per la mia tesi di laurea sul guardiese, con  i miei professori di glottologia, ebbero questi da ridire sulla particolare colorazione delle nostre vocali, sospettando, almeno all’inizio che le mie rilevazioni fossero inesatte. Quando però feci notare che  il Rohlf, studioso autorevolissimo di cui parleremo più avanti, nella sua analisi dei dialetti d’Italia, aveva di passaggio notato una  “i” , diversa da quella tradizionale, nella regione molisana (anche se non si era proprio accorto  della “u” prevelare) le cose si misero al meglio, e alla fine, dopo accurata ricerca, accolsero con soddisfazione la straordinaria rilevazione.
Ma passiamo alle  altre influenze dell’osco, altrettanto interessanti:

b)      La lingua dei Sanniti, al fonema indoeuropeo “bh, là dove il latino registra la b”, risponde con f”;

A mo’ di esempio riportiamo l’indoeuropeo  comune  *tubha  =  tromba, che in latino diventa  “tuba”, mentre in osco dà  *tufa.
L’asterisco ci dice che il termine è stato ricostruito dai linguisti; invece bisogna sottolineare che esso, anche se non è stato registrato da autorevoli ricercatori, è appartenuto e appartiene ancora al lessico guardiese, naturalmente nella versione osca. Infatti è ancora molto usato da noi il modo di dire  “Ce vo’ la tfa!” .  Letteralmente l’espressione equivale all’italiano “Ci vuole la tromba!”, ma in senso figurato significa “Non vuole sentire!” ed è rivolto a chi non presta attenzione.
 E’ da aggiungere che fino a mezzo secolo fa la “tfa indicava una sorta di grossa conchiglia usata a mo’ di tromba da richiamo in quel di Pontelandolfo.
c)       L’osco inoltre risente quasi sempre del processo di assimilazione  nd > nn , fenomeno diffusissimo nel dialetto guardiese soprattutto nel  gerundio semplice di tutti i verbi:

Esempi:

magnénne = mangiando, derivato da un precedente *magnendu; fejénne  = fuggendo, da un precedente *fujendu; 
skurrénne = scorrendo, da un predente *excurrendu.

Non c’è gerundio in cui non avvenga tale assimilazione, ma il fenomeno investe anche altri vocaboli come:
   
 mùnne = mondo, dal latino “mundus”;
 tùnne  =tondo, dal latino “tundus”;
 fùnne = fondo, dal latino “fundus” ecc. ecc.

d)      Altro fenomeno  di assimilazione portato dall’osco è il passaggio di “mb”  a  “mm”.
 E noi tra tantissimi altri esempi ricordiamo:  
 chjùmme  = piombo, dal latino “plumbum”;
 wammàle = arco di legno su cui si appende il maiale ammazzato.

La storia di quest’ultimo termine è piuttosto lunga: si parte da  *gambale, voce costruita su un vocabolo corrispondente all’italiano ”gamba”, in quanto all’utensile, durante la macellazione, si collegano entrambe le zampe dell’animale. Unendo l’articolo determinativo “ru”,  si ha *ru gambale;  per aspirazione e successiva caduta della gutturale sonora “g” e per assimilazione  mb >mm si ha prima *ru ghambale, poi *ru ambàle e poi * ru ammàle; per concretizzazione dell’articolo (fenomeno che consente la cattura della “u” finale di  “ru”, facendola diventare iniziale del nome seguente) si ha *r’ uammàle e, per consonantizzazione della vocale “u”, si passa alla fase definitiva “re wammàle”. Detta “u”  naturalmente scompare  nel plurale, in quanto l’articolo determinativo non è più “ru”, ma “ri”; infatti il plurale di “re wammàle” è “re  ammàle”, con semplice aspirazione e successiva scomparsa della gutturale sonora iniziale  “g” );

e)        Di  Influsso osco inoltre è sicuramente la sonorizzazione di “s” in “z” quando è preceduta da “n”.
Esempi:
       mànze mànze  =  mansueto, calmo calmo;
       Fònze per Alfonso;
       anzjùse per ansioso ecc.  

Nelle iscrizioni osche infatti leggiamo “kenzur per il latino “censor”, “menzaru” per *mensarius, aggettivo costruito su “mensis” =mese;

f)       Portata dall’osco, ma di origine siculo-sicana (strato linguistico preindoeuropeo) è l’evoluzione  l > r.

 La rileviamo nell’articolo determinativo, maschile, singolare “re”; è questo, prodotto di  “*ru”, a sua volta derivato da  *lu, evoluzione del pronome o aggettivo dimostrativo latino “illu(m)” = quello.
 La stessa evoluzione  l > r registriamo in “cìfare” dal latino “cefalus” = cefalo (da noi il termine ha subito evoluzione di significato ed è passato ad indicare il ragazzo “irrequieto”, il “diavoletto”, per l’eccessiva mobilità o irrequietezza di detto pesce);

g)      Altro influsso dell’osco è da considerarsi il passaggio del nesso “bj”  a “ggj” , come vediamo nel  latino  habeo  che diventa  *habjo  e poi  *aggjo. Esempio: ho da andare =    “ àggja   i”.
Bisogna notare che è questo un  probante esempio del moderno futuro e sostituisce il classico suffisso latino “bo”; infatti, nel passaggio dal latino all’italiano, la classica forma“cantabo”  tende a scomparire e ad essa si preferisce la perifrasi “ho da cantare”. Col tempo, sulla bocca del popolo, detta espressione diventa  prima  *ho (da) cantare”, poi *cantare ho, poi *cantarò e infine “canterò”. Il futuro del nostro dialetto sta ancora alla prima fase *ho  da …cantare  = “àggja” ..cantà.

h) Di natura osca è l’uso dell’anaptissi, l’inserimento,  in un nesso consonantico, di un elemento  vocalico (nel guardiese tale elemento è di solito lo “scevà” , vocale di timbro evanescente, simile alla “e” muta francese, che nel paragrafo del vocalismo abbiamo trascritto con  ə.

Esempi:
pələpàjəna:  latino propaginem = propaggine, in cui si è inserita   una vocale ə(scevà)  tra la “p” e la “r” (diventata  “l”della sillaba iniziale “plə, diventata “pələ;

saraménta :  latino “sarmenta” = tralci tagliati e destinati  al fuoco; si  ha l’inserimento, questa volta, della vocale “a” , tra le due consonanti “r”  e “m”. Tale “a”  è però  prodotto di assimilazione progressiva tra le prime due sillabe conseguenti “sa-rə” > “sa-ra;
qwaləkàgnə = calcagno;  c’è uno scevà tra “l”  e  “k”;

qwarəvònə  = carbone;  c’è uno scevà   tra la “r”  e la  “v”;

tàləpa  = talpa; c’è uno  “scevà  tra  la “l”  e la “p”.

i) Infine è da tenere in grande considerazione la permanenza nel nostro dialetto di vocaboli puramente osci. Basta ricordare:

“péuzə  = mazza più corta del gioco della lippa, che è l’osco *pilso. Il termine, per evoluzione i > e, diventa *pelso, poi per  sonorizzazione di “s” (pressata da “l”) passa a *pelzo e per  evoluzione el >eu (cfr. gelso > cjéuze) diventa *péuzo  e infine “péuzə”;

màfarə = bastoncino usato a mo’ di tappo per otturare il buco di scarico della cisterna; deriva dall’osco “mamphar” = bastone;

“pjésqwə = sasso, con i suoi derivati “pəskònə”= grosso sasso e “pəskunàta = sassata, deriva dall’osco “persclum = sasso.  

Sono trascorsi ben 3.500 anni dall’arrivo degli Osci nel Sannio e le loro testimonianze sono dure a morire.        
Quanti popoli invasori si sono avvicendati nelle nostre contrade!
Quante lingue si sono sovrapposte al primigenio sostrato indoeuropeo!
 Eppure i colori dei suoni vocalici e tanti altri accidenti fonetici così cari al fiero popolo sannita ancora oggi vengono succhiati insieme al latte materno in queste feraci  valli della regione campano-molisana.