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Sannioecultura
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mercoledì 27 settembre 2017
La Lingua Osca
L’osco appartiene al ceppo linguistico indoeuropeo,
propriamente alla stessa famiglia del latino, del greco e del messapico e fu la
lingua ufficiale del Sannio fino alla
terza guerra sannitica.
Giunse da noi con la terza invasione della popolazione europea-asiatica,
avvenuta attraverso il Canale d’Otranto tra il 1500 e il 1200 a.C. e presenta
un volto e una struttura non molto diversi dal latino, essendo i Sanniti veri e
propri cugini di quelli che furono poi i fondatori della Città Eterna.
Tra le sue caratteristiche fondamentali bisogna ricordare
le seguenti:
a)
Alla ” i “ (lunga) dell’Indoeuropeo comune,
quella che in latino resta “i”,
l’osco risponde spessissimo con una “e”
lunga con pronuncia molto stretta (i ricercatori di solito la trascrivono con “e”). Lo testimonia l’analisi fatta da studiosi sulle tavole osche di
Agnone e di Pietrabbondante, sui ciottoli di Sepino e le jùvilas di Capua, sul
Cippo Abellano e sulle iscrizioni sannite di Pompei.
In detti documenti rileviamo, per esempio, “deke” là dove il latino risponde con “dico”, “vella” per
il latino “villa”, “prems”
per il latino “primus”.
E non è forse una “e” molto stretta la nostra particolare “i” oscura prepalatale, che nell’introduzione abbiamo trascritto
con “e” nel
guardiese “Fəleppə” e che confermiamo, come
nell’osco, in“deqwə” = dico, “vella” = villa,
“premə” = primo e in tanti altri vocaboli come “tena” = tino, “pegna” = pigna, “zewə” = zio, “retə” = ride e in tutte le sillabe toniche, purchè non sia, essa “i”, preceduta
da vocale, da “k” o da consonante palatale? 1)
Provate a far pronunciare i vocaboli or ora elencati a un
non Guardiese, sia esso Laurentino o San Lupese, Castelvenerese o Solopachese,
Beneventano o Napoletano; noterete subito la differenza: il timbro più oscuro della nostra “i”
farà apparire più rude il nostro linguaggio, ma certamente meno mielato e più
fiero.
La
stessa fierezza ci è assicurata dalla nostra “u”, per la quale, come per la “i”,
registriamo due timbri diversi : uno normale, velare, simile a quello della
corrispondente “u” italiana ( ed è
quella di “mùtə” = imbuto) e un’altra più vicina alla “o”, quindi prevelare(nell’introduzione, per distinguerla,
l’abbiamo trascritta col segno “ụ”) come quella di “sụbbətə” =subito, “tụttə” = tutto, “lụttə”= lutto e di ogni “u” tonica, purchè non sia preceduta da una della
seguenti consonanti: b – k – f – m- p- v- (le cosiddette
occlusive od esplosive) oppure da vocale.
Un’attenta ricerca ha dimostrato
che anche questo importante fenomeno fonetico deriva dall’antica lingua dei
Sanniti; infatti nel vocalismo osco registriamo due diverse “u”, una normale, corrispondente a
quella latina, trascritta con il segno V e
una prevelare, più vicina alla “o”,
trascritta col segno diacritico V .
Così,
sempre nell’osco, la “i” normale è
trascritta col segno I
mentre la “i” prepalatale è riportata
col segno diacritico I
Sia l’uno che
l’altro segno dell’alfabeto osco (V =
ụ guardiese, I = e guardiese)
sono stati scientificamente inseriti dal Lejeune2) nel sistema fonetico delle antiche lingue italiche, ma le
osservazioni dello studioso non hanno avuto adeguati sviluppi;
1)Le palatali sono quelle che contengono il suono “i” e sono le schiacciate: c,
g, sc, gn.
2)Studioso francese, appassionato
cultore della lingua dei Sanniti, autore tra l’altro di un interessante
articolo sulla fonetica osca “Phonologie
osque e graphie grecque”- 1970 .
infatti i glottologi hanno trascurato un poco
la nostra area linguistica e non hanno rilevato nelle loro ricerche dette particolari
colorazioni vocaliche. A tal proposito
mi ricordo che ebbi un gran da fare nel lontano 1969, quando, discutendo i
primi vocaboli, raccolti per la mia tesi di laurea sul guardiese, con i miei professori di glottologia, ebbero
questi da ridire sulla particolare colorazione delle nostre vocali,
sospettando, almeno all’inizio che le mie rilevazioni fossero inesatte. Quando
però feci notare che il Rohlf, studioso
autorevolissimo di cui parleremo più avanti, nella sua analisi dei dialetti
d’Italia, aveva di passaggio notato una “i” , diversa
da quella tradizionale, nella regione molisana (anche se non si era proprio
accorto della “u” prevelare) le cose si misero al meglio, e alla fine, dopo accurata
ricerca, accolsero con soddisfazione la straordinaria rilevazione.
Ma passiamo alle
altre influenze dell’osco, altrettanto interessanti:
b)
La lingua dei Sanniti, al fonema indoeuropeo “bh”,
là dove il latino registra la “b”, risponde con “f”;
A mo’ di esempio riportiamo l’indoeuropeo comune *tubha
= tromba, che in latino diventa “tuba”,
mentre in osco dà *tufa.
L’asterisco ci dice che
il termine è stato ricostruito dai linguisti; invece bisogna sottolineare che esso,
anche se non è stato registrato da autorevoli ricercatori, è appartenuto e
appartiene ancora al lessico guardiese, naturalmente nella versione osca.
Infatti è ancora molto usato da noi il modo di dire “Ce vo’ la tụfa!” . Letteralmente l’espressione equivale
all’italiano “Ci vuole la tromba!”, ma in senso figurato significa “Non vuole
sentire!” ed è rivolto a chi non presta attenzione.
E’ da aggiungere che fino a mezzo secolo fa la
“tụfa” indicava una sorta di
grossa conchiglia usata a mo’ di tromba da richiamo in quel di Pontelandolfo.
c)
L’osco inoltre risente quasi sempre del processo
di assimilazione nd > nn , fenomeno diffusissimo
nel dialetto guardiese soprattutto nel gerundio semplice di tutti i verbi:
Esempi:
magnénne = mangiando, derivato da un
precedente *magnendu; fejénne = fuggendo, da un
precedente *fujendu;
skurrénne = scorrendo, da un
predente *excurrendu.
Non c’è gerundio in cui non avvenga tale assimilazione,
ma il fenomeno investe anche altri vocaboli come:
mùnne”
= mondo, dal latino “mundus”;
tùnne
=tondo, dal latino “tundus”;
fùnne
= fondo, dal latino “fundus” ecc.
ecc.
d)
Altro fenomeno di assimilazione portato dall’osco è il
passaggio di “mb” a “mm”.
E noi tra tantissimi
altri esempi ricordiamo:
chjùmme =
piombo, dal latino “plumbum”;
wammàle
= arco di legno su cui si appende il maiale ammazzato.
La storia di quest’ultimo termine è piuttosto lunga: si
parte da *gambale, voce costruita
su un vocabolo corrispondente all’italiano ”gamba”,
in quanto all’utensile, durante la macellazione, si collegano entrambe le zampe
dell’animale. Unendo l’articolo determinativo “ru”, si ha *ru gambale; per aspirazione e successiva caduta della
gutturale sonora “g” e per
assimilazione mb >mm si ha prima *ru ghambale, poi *ru ambàle e poi * ru ammàle; per concretizzazione
dell’articolo (fenomeno che consente la cattura della “u” finale di “ru”,
facendola diventare iniziale del nome seguente) si ha *r’ uammàle e, per consonantizzazione della vocale “u”, si passa alla fase definitiva “re
wammàle”. Detta “u” naturalmente scompare nel plurale, in quanto l’articolo
determinativo non è più “ru”, ma “ri”; infatti il plurale
di “re
wammàle” è “re ammàle”, con
semplice aspirazione e successiva scomparsa della gutturale sonora iniziale “g” );
e)
Di Influsso
osco inoltre è sicuramente la sonorizzazione di “s” in “z”
quando è preceduta da “n”.
Esempi:
mànze
mànze = mansueto, calmo calmo;
Fònze
per Alfonso;
anzjùse
per ansioso ecc.
Nelle iscrizioni osche infatti leggiamo “kenzur” per il latino “censor”, “menzaru” per *mensarius, aggettivo costruito su “mensis” =mese;
f)
Portata dall’osco, ma di origine siculo-sicana (strato
linguistico preindoeuropeo) è l’evoluzione
l > r.
La rileviamo nell’articolo determinativo,
maschile, singolare “re”; è questo, prodotto di “*ru”, a sua volta derivato da *lu, evoluzione del pronome o aggettivo
dimostrativo latino “illu(m)” =
quello.
La stessa evoluzione l > r registriamo in “cìfare”
dal latino “cefalus” = cefalo (da noi
il termine ha subito evoluzione di significato ed è passato ad indicare il
ragazzo “irrequieto”, il “diavoletto”, per l’eccessiva mobilità o irrequietezza
di detto pesce);
g)
Altro influsso dell’osco è da considerarsi il
passaggio del nesso “bj” a “ggj”
, come vediamo nel latino habeo che diventa
*habjo e poi *aggjo. Esempio: ho da andare = “
àggja i”.
Bisogna notare che è questo un probante esempio del moderno futuro e
sostituisce il classico suffisso latino “bo”; infatti, nel passaggio dal
latino all’italiano, la classica forma“cantabo”
tende a scomparire e ad essa si
preferisce la perifrasi “ho da cantare”.
Col tempo, sulla bocca del popolo, detta espressione diventa prima *ho (da) cantare”, poi *cantare ho, poi *cantarò e infine “canterò”.
Il futuro del nostro dialetto sta ancora alla prima fase *ho da …cantare = “àggja” ..cantà.
h) Di natura osca è
l’uso dell’anaptissi, l’inserimento,
in un nesso consonantico, di un elemento vocalico (nel guardiese tale elemento è di
solito lo “scevà” , vocale di timbro evanescente, simile alla “e”
muta francese, che nel paragrafo del vocalismo abbiamo trascritto con ”ə”.
Esempi:
pələpàjəna: latino propaginem = propaggine, in cui si è
inserita una vocale ”ə”(scevà) tra la “p” e la “r” (diventata “l” )
della sillaba iniziale “plə”, diventata “pələ”;
saraménta : latino “sarmenta”
= tralci tagliati e destinati al fuoco;
si ha l’inserimento, questa volta, della
vocale “a” , tra le due consonanti “r” e “m”. Tale “a” è però prodotto di assimilazione progressiva tra le
prime due sillabe conseguenti “sa-rə” > “sa-ra”;
qwaləkàgnə = calcagno; c’è uno scevà tra “l” e “k”;
qwarəvònə = carbone; c’è uno scevà
tra la “r” e la “v”;
tàləpa = talpa; c’è uno “scevà” tra la “l” e la “p”.
i) Infine è da tenere in grande considerazione la
permanenza nel nostro dialetto di vocaboli puramente osci. Basta ricordare:
“péuzə” = mazza più corta del gioco della lippa, che
è l’osco *pilso. Il termine, per evoluzione i > e, diventa *pelso, poi per sonorizzazione di “s” (pressata da “l”) passa a *pelzo e
per evoluzione el >eu (cfr. gelso >
cjéuze) diventa *péuzo e infine “péuzə”;
màfarə = bastoncino usato a
mo’ di tappo per otturare il buco di scarico della cisterna; deriva dall’osco “mamphar”
= bastone;
“pjésqwə” = sasso, con i suoi
derivati “pəskònə”= grosso sasso e “pəskunàta” = sassata, deriva dall’osco “persclum” = sasso.
Sono trascorsi ben 3.500 anni dall’arrivo degli Osci nel
Sannio e le loro testimonianze sono dure a morire.
Quanti popoli invasori si sono avvicendati nelle nostre
contrade!
Quante lingue si sono sovrapposte al primigenio sostrato
indoeuropeo!
Eppure i colori
dei suoni vocalici e tanti altri accidenti fonetici così cari al fiero popolo
sannita ancora oggi vengono succhiati insieme al latte materno in queste feraci
valli della regione campano-molisana.
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